L’espressione sensi spirituali – utilizzata sovente
nella forma singolare come senso divino,
senso spirituale o senso interiore, impiegata al plurale in
analogia con i cinque sensi corporali – traduce una semplice constatazione, un’esperienza
facilmente verificabile e ben espressa da Giovanni nel suo vangelo: «Dio
nessuna persona lo ha mai visto» (Gv 1,18). Tuttavia, Dio non può essere
totalmente separato dall’uomo, creato a sua immagine e somiglianza: in qualche
modo Dio deve manifestarsi alla sua creatura e rendersi conoscibile. Come
l’uomo esteriore è dotato di un corpo che possiede organi sensoriali adatti
alla percezione del sensibile, così, l’uomo interiore possiede organi specifici
atti alla percezione delle realtà divine, spirituali e immateriali: del resto, la conoscenza di Dio non dipende dall’occhio
del corpo, ma dallo spirito.
ORIGENE
Il
riferimento a Origene, eminente rappresentante della scuola di Alessandria nel
terzo secolo, è d’obbligo trattandosi di colui che ha dato l’avvio alla
dottrina dei cinque “sensi spirituali”, spintovi, tra l’altro, dalla sua stessa
tendenza a interpretare allegoricamente ogni allusione biblica al numero cinque
come riferimento ai cinque sensi.
A proposito dei profeti, Origene così
scriveva:
« La loro vista e il loro udito era
spirituale; similmente essi gustavano e odoravano, per dir così, con un senso
che non era sensibile; ed era così che toccavano il Verbo con la loro fede, in
modo da ricevere la sua emancipazione che li purificava; ed era così che essi
vedevano quelle cose che riferiscono di aver vedute, e udivano quel che dicono
di aver udito, e provavano altre simili cose, di cui parlano, come quando
dicono di aver mangiato il rotolo d’un volume che era stato dato loro (cfr. Ez.
3, 2)...
Sui sensi spirituali Origene scriveva:
«L’uomo esteriore ha il gusto; anche
l’uomo interiore ha il gusto spirituale di cui è stato detto: " Gustate e vedrete
che soave è il Signore ( cfr. 1Pt. 2,3).
AGOSTINO
Le confessioni
Per
renderci familiare la dottrina sui sensi interiori è necessario riportare anche
il pensiero di un grande testimone della tradizione cristiana, sant’Agostino,
il quale espone con insuperata bellezza l’impatto che l’esperienza religiosa ha
sull’insieme dei nostri sensi.
“Tardi ti ho amato, bellezza cosa antica
e cosa nuova, tardi ti ho amato. […] Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia
sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la
tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti,
e arsi di desiderio della tua pace” (Confessioni)
E’
nel prolungamento dei cinque sensi che Agostino coglie dio, sembra
confermare che nel movimento che porta l’uomo a rientrare dentro di sé per
cercare Dio, i sensi del corpo non devono essere rigettati. Occorre tuttavia
che la Grazia intervenga per purificarli e orientarli verso di Lui,
quali strumenti di una nuova dimensione esistenziale.
quali strumenti di una nuova dimensione esistenziale.
«Ciò che sento in modo non dubbio,
anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua
Parola, ti amai, e anche il cielo e la terra e tutte le cose in essi contenute,
ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, come lo dicono senza posa a tutti gli
uomini [...]. Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una
grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi,
non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori,
degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette
agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio.
Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio
Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è
in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona
una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento,
ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta
non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio» (Confessioni,
10,6.8 e 27).
L’idea che ogni organo sensoriale sia
chiamato a discernere e giudicare un particolare oggetto è ribadita da Agostino
anche in uno dei suoi sermoni. L’occasione è offerta da un commento al Vangelo
di Luca (Lc 14,19):
Dei sensi del nostro corpo se ne
contano cinque, come sanno tutti, e anche quelli che forse non sono abituati a
riflettere, li riconoscono senz'altro se vengono richiamati alla loro memoria.
Orbene, cinque sono i sensi del nostro corpo: la vista negli occhi, l'udito
nelle orecchie, l'odorato nelle narici, il gusto nella bocca, il tatto in tutte le membra.
Gli oggetti bianchi e neri o colorati in qualsiasi modo, quelli luminosi e
oscuri li percepiamo con la vista; i suoni striduli e quelli armoniosi li
percepiamo con l'udito, gli odori disgustosi e i profumi li percepiamo con
l'odorato; le cose dolci o
amare le percepiamo col gusto; gli oggetti duri o molli, quelli lisci e
quelli ruvidi, quelli caldi e quelli freddi, quelli pesanti e quelli leggeri li
percepiamo col tatto. I sensi sono cinque ma ognuno forma una coppia. Che però
formino delle coppie appare facilmente solo nei primi tre sensi: due sono gli
occhi, due le orecchie, due le narici: ecco tre coppie. Anche nella bocca, cioè nel senso del gusto si
trova, per così dire, un doppio senso, poiché mediante il gusto non si assapora
nulla se non si tocca con la lingua e col palato. È più difficile scorgere come
il piacere sensibile prodotto dal tatto ha un organo doppio: esso infatti è
esterno e interno; anch'esso dunque è doppio.
Il corpo è opera di Dio, il quale ha
disposto gli organi sensoriali in una maniera tale per cui all’uomo sia
concesso, attraverso l’anima, vedere, udire, odorare, gustare e toccare. Non c’è alcun dubbio
che se è l’anima ha guidare il corpo, l’attività sensoriale ha sede nel corpo.
In questa dicotomia anima / corpo; intelligibile / sensibile, l’anima si
manifesta nell’intelligenza, il corpo nei sensi.
Mondo interno e mondo esterno sono messi in
comunicazione attraverso le porte dei sensi: il gusto sarà allora la porta
attraverso cui la mente conoscerà, nel senso pieno del termine, ciò che in
natura è buono, cioè confacente alla natura corporea dell’uomo, e ciò che,
invece, è contrario a tale natura e perciò nocivo.
Scrive Agostino nel De moribus Ecclesiae catholicae et de
moribus Manichaeorum :
L’altra
creatura è il corpo. E se l’anima è qualcosa di intelligibile, ossia che si può
conoscere solo attraverso l’intelligenza, l’altra creatura comprende tutto il
sensibile, cioè per quanto così dire, dà qualche notizia di sé per mezzo della
vista, dell’udito, dell’odorato, del gusto e del tatto, ed è necessario che si inferiore rispetto
a ciò che si afferra con la solo intelligenza
Agostino ribadisce il concetto in un
passo delle sue Epistulae:
Quanto
al gusto e al tatto
però non vi è alcun dubbio che ciò che gustiamo e tocchiamo non lo percepiamo
se non nel nostro corpo.
Tra le sensazioni dolorose, causate
dalla difficoltà che l’anima incontra nell’esercitare le sue funzioni, rientrano
anche fame e sete. Così Agostino nel De musica:
Quando
invece viene meno ciò con cui si rinforza la debolezza del corpo, ne deriva un
impoverimento e dato che l’anima diventa più cosciente a causa di questa
difficoltà dell’azione e non le è nascosta questa sua attività, si dice fame e
sete.
Se fame e sete, sensazioni dovute alla
scarsità di cibo, determinano un indebolimento del corpo, provocando sensazioni
non certo piacevoli, anche mangiare troppo è avvertito dall’anima con un senso
di disagio:
Quando
poi i cibi ingeriti sono oltre il bisogno e dalla loro pesantezza sorge la
difficoltà di agire, questo non avviene senza che l’anima se ne accorga e
poiché non rimane nascosta questa azione, si avverte l’indigestione.
L’anima - sostiene Agostino - si serve
dei sensi con un equilibrio tale che, in potenza, riesce a controllare
attentamente le passioni del corpo e a unire il simile con il simile.
Il senso, che è presente anche quando non
sentiamo nulla, è uno strumento del corpo ed è usato dall’anima con un equilibrio
tale che la fa essere più pronta a controllare attentamente le passioni del
corpo per unire il simile con il simile e respingere ciò che sia nocivo.
. A proposito del piacere
di mangiare e del rapporto, spesso ambiguo, che intercorre tra questo e la
necessità di alimentarsi, Agostino scrive:
Abbiamo bisogno del sostegno degli
alimenti. Se non fossero piacevoli non li potremmo neppure prendere e con
nausea li respingeremmo: dobbiamo anche guardarci dai pericolosi fastidi. La
debolezza del nostro corpo ha bisogno non solo del cibo, ma anche del suo
sapore, non per appagare la libidine, ma per salvaguardare la salute. Quando la
natura pertanto richiede in certo modo i sussidi che le mancano, non si chiama
libidine, ma solo fame o sete. Quando, però, dopo aver consumato il necessario,
l'amore del cibo sollecita ulteriormente l'animo, già è libidine, già è male
cui non bisogna cedere ma resistere.
[…]
Quanto a maggior ragione spetta a noi conoscere e distinguere quale sia la
necessità di mangiare e quale il piacere della voracità. È compito nostro
nutrire con lo spirito desideri avversi alle voglie della carne, dilettarci
della legge di Dio secondo l'uomo interiore161, e non offuscare minimamente la serenità del suo gusto con
piaceri libidinosi. Questo piacere del mangiare, dunque, lo si deve reprimere
non col mangiare, ma con l’astinenza. (Contra Iulianum )
Secondo gli insegnamenti
di san Paolo, scrive Agostino:
Appare chiaro dunque, come credo, il fine per
cui bisogna astenersi dalle carni e dal vino. Questo fine è triplice: reprimere
il piacere che abitualmente si prova soprattutto in questi cibi e che in tale
bevanda arriva fino all’ubriachezza; avere riguardo per i deboli in riferimento
alle cose oggetto di sacrifici e di libagioni; infine, ciò che è più
importante, praticare la carità, per non ferire i più deboli che si trattengono
dal farne uso. (De moribus Ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum)
Questo il giudizio finale
di Agostino:
Voi dunque salvate colui che la
cupidigia immerge in sordidezze e non salvate colui che, secondo il vostro
giudizio, è contaminato dallo stesso cibo, pur riconoscendo che la macchia
provocata dalla concupiscenza è di gran lunga più grave di quella causata dalla
buona carne. Così accogliete colui che si getta con grande avidità e senza
trattenersi sulle vivande condite in modo assai gradevole, mentre respingete
colui che, per calmare la fame e senza alcuna cupidigia, mangia
indifferentemente qualsiasi cibo in uso tra gli uomini, pronto tanto a
prenderlo quanto a rifiutarlo. Ecco i vostri straordinari costumi; ecco la
vostra eccellente disciplina e la vostra memorabile temperanza!
(De
moribus Ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum)
Gregorio Magno
Tra i sensi
spirituali, Gregorio accorda una assoluta precedenza al senso del gusto.
E’ perlustrando questa modalità conoscitiva del gusto che egli giunge ad
avvicinare l’estasi mistica all’estasi eucaristica. Entrambe, infatti, si
compiono nell’esperienza della “dolcezza di Dio” e, per il Nisseno, l’estasi
non è altro che una effettiva trasformazione in Dio operata dalla grazia e dai
sacramenti. Termini e simboli impiegati per il gusto rimandano così a
quell’esperienza di Dio nella quale concorrono tanto la grazia dei sacramenti
quanto l’intimo rapporto tra l’anima-sposa e Cristo - sposo.
I cinque sensi, dunque,
sono un dono: il dono della conoscenza. I sensi, poi, possono anche divenire
altrettanti nascondigli dell’anima che, dalle verità esteriori, si rifugia
nella sua intimità, coltivandone le virtù. E’ quanto si evince da un passo
delle Omelie su Ezechiele, dove
emerge anche un forte richiamo al simbolismo dei numeri:
Nella Sacra Scrittura - dice Gregorio - i denti
oltre a simboleggiare i sensi interni, significano anche i santi predicatori. E
quale è la principale occupazione dei predicatori se non quella di convertire i
pagani e condurli a nuova vita grazie al messaggio di salvezza cristiana? Chi accetterà
di seguire la parola di Dio rinascerà e sarà uomo nuovo
(...) A proposito dei santi predicatori (...) ecco perché ad uno
di essi, al quale vengono presentati in una visione simbolica i Gentili, viene
detto: Uccidi e mangia, cioè: Elimina in essi l’uomo vecchio e assimilali al
corpo della chiesa, cioè trasformali nelle tue membra.
In questo caso la
rinascita avviene per mezzo della predicazione della parola di Dio, ma è interessante
che nel passo in questioni si utilizzi il verbo mangiare e le parole assimilare
e trasformare che appartengono alla
sfera alimentare.
Come il cibo è oggetto di
trasformazione da parte di chi mangia ad opera del processo digestivo, così il
cibo sacro, non più trasformato, ma per così dire “trasformante” è in grado di
produrre, all’interno dell’uomo, cambiamenti significativi.
Così, Gregorio, in una
delle sue omelie su Ezechiele scrive:
Avvengono cose nuove nel nostro anima quando si allontanano da noi
i vizi dell’uomo vecchio, e si allontanano […] proprio quando il ventre mangia
l’insegnamento della parola sacra e le viscere si riempiono fino al midollo.
[…] Il loro ventre ha mangiato il sacro rotolo e le loro viscere si sono
riempite perché la memoria non ha smarrito i precetti della vita che
l’intelligenza è riuscita a comprendere, ma l’anima raccolto in Dio li ha
conservati, richiamandoli sempre alla memoria e piangendo.
Tuttavia, la parola di Dio
non è in grado di nutrire tutti allo stesso modo. Infatti, scrive
Gregorio:
[…] mangia e non si sazia
chi ascoltando la parola di Dio, spira ai guadagni e alla gloria del mondo. È giusto
dire che non si sazia perché mangia una cosa ma ha fame di altro. Beve ma non
si inebria, chi porge l’orecchio alla voce della predicazione, ma non cambia
maniera di pensare. Di solito per l’ebbrezza i sensi di chi beve cambiano. Ora,
chi si dedica a conoscere la parola di Dio, ma insegue le cose di questo mondo,
beve e non si inebria. Se si inebriasse, di sicuro cambierebbe mentalità, non
cercherebbe più le cose terrene […] (Homiliae in hiezechihelem)
Cibo dolce al pari del
miele, tale Parola deve essere riposta ed amata “nelle viscere del cuore”, ma
deve essere assimilata nella giusta proporzione, secondo la preparazione
spirituale di ognuno di noi. Come il miele infatti è cibo nutriente, ma deve
essere preso con misura perché le virtù benefiche di questo alimento non si
trasformino in un impedimento per lo stomaco, risultando indigesto, così anche
la parola di Dio deve essere “mangiata” in giusta misura:
Se hai trovato il miele, mangiane quanto ti basta, per non esserne
nauseato e poi vomitarlo. Si trova il miele quando si gusta la dolcezza
dell’intelligenza spirituale. E se ne mangia quanto basta, quando la nostra
intelligenza si mantiene, nelle misura della propria comprensione, senza
oltrepassarla. È nauseato e vomita il miele che, pretendendo di penetrare oltre
la propria capacità, trova la rovine laddove poteva nutrirsi […].
Come il corpo avverte la
fame sensibile, così l’anima desidera gustare la Parola di Dio che colmi il
silenzio da cui è avvolta:
Nella fame ti scamperà dalla morte e in guerra dal colpo della
spada. Come la fame fisica è sottrarre il sostentamento al corpo, così la fame
dell’anima è il silenzio della parola di Dio. A proposito di questo il profeta
dice manderò la fame sulla terra, non fame di pane, né sete di acqua, ma
d’ascoltare la parola di Dio […] Soffriamo la guerra quando siamo bersagliati
dalle tentazioni della carne; della quale guerra il salmista dice proteggi il mio
capo nel giorno della guerra. E siccome i malvagi quando soffrono la fame della
parola di Dio sono anche trafitti dalla spada, il Signore nella fame scampa i
suoi eletti […] e nella guerra li protegge dalla spada perché, mentre ristora
la loro anima con il nutrimento della sua parola, li rende forti contro le
tentazioni della carne […].
Solo gustando la parola di
Dio, infatti, l’anima soddisferà la sua brama di verità:
Allora sarai colmato di delizie dall'Onnipotente. L’Onnipotente ci
colma di delizie quando ci saziamo del suo amore al banchetto della Sacra
Scrittura. Sì, nelle sue parole noi troviamo tante delizie quanti, via via che
progrediamo, sono diversi i significati che vi scopriamo. Alcune volte ci nutre
il semplice racconto storico, altre volte ci ristora fino al midollo l’allegoria
morale velata sotto il testo letterale [..] E si tenga presente che quando uno
è colmato di delizie, si placa in qualche modo la sua tensione interiore […] perché quando l’anima comincia a
gustare l’abbondanza delle delizie
interiori, non torva più gusto ad occuparsi delle cose terrene[…]quando
l’anima innamorata [di Dio] si ristora con l’intelligenza dei misteri,
già in essa l’oscurità della vita presente viene illuminata dal fulgore del
giorno che avanza, di modo che anche nel buoi di questa vita corruttibile,
irrompe nel suo intelletto la forza della luce futura e, pascendosi nelle
delizie della parola e da tale pregustazione, si rende conto che cosa al sua
fame brami del pascolo della Verità.
Questa parola
è spezzata e masticata internamente per essere trasmessa al “ventre della
memoria” e nutrire così la vita dell’anima. Anche in questo caso è possibile
solo a chi sa rinunciare ai desideri smoderati ed è in grado di attenuare il
legittimo bisogno di cibo corporale.
Cristo ci
invita al banchetto nel quale l’uomo può accostarsi alla parola di Dio e
conoscerne così la dolcezza, un sapore precluso all’’uomo peccatore e a cui, in
qualche modo, deve riabituarsi per non incorrere in una vita di angosce.
Infatti, scrive Gregorio:
[…] Chi potrebbe amare ciò che ignora? Per questo il salmista ci
ammonisce con queste parole gustate e vedete com’è dolce il Signore, per dirci:
non potete rendervi conto della sua bontà se non l’avete in alcun modo gustata.
Accostatevi al cibo della vita con il palato del cuore così da poterne amare la
dolcezza dopo averla gustata. L’uomo restò privo di queste delizie quando peccò
nel Paradiso: ne fu escluso quando chiuse la sua bocca di fronte al cibo
dell’eterna dolcezza [...] Noi dunque […] siamo in preda al tedio e non
sappiamo cosa occorra desiderare. L’angoscia di questo tedio si intensifica
quanto più l’anima smette di assaporare quella dolcezza, restando così priva
del desiderio perché da troppo tempo ne ha perduto la consuetudine di
mangiarne. […] Non potendo gustare nell’intimo la dolcezza a noi preparata
preferiamo da stolti questa nostra fame […].
Cristo, dunque, ci invita
alle delizie celesti e al convito di Dio, chiamato cena e non pranzo, come
sottolinea Gregorio:
Agli occhi della nostra mente quelle delizie da noi disprezzate e
ce le ripropone […] Dice infatti un uomo organizzò una grande cena a cui invitò
molte persone. […] Egli imbandì una grande cena perché ci procurò la sazietà
dell’intima dolcezza. Né invitò molti ma pochi vennero […] Leggiamo poi mandò
il suo servo, all’ora della cena, per dire agli invitati di venire. Cosa si
indica con l’ora della cena se non la fine del mondo? […] Se dunque è ormai
l’ora di cena, quando siamo chiamati, non dobbiamo in alcun modo respingere la
chiamata al convito di Dio proprio perché constatiamo che si avvicina la fine
dei tempi [...]. Questo convito di Dio non è chiamato pranzo, ma cena perché si
sa che questa viene dopo il pranzo e dopo di essa non c’è alcun convito.
Siccome l’eterno convito di Dio sarà a noi preparato alla fine, giustamente
esso non fu chiamato pranzo ma cena.
Gregorio esorta ad
accettare l’invito di Cristo alla cena del Padre, nella quale i cibi materiali
divengono spirituali:
[..] Accettate di buon animo l’invito alla cena del Padre di
famiglia che sta nei cieli. Scuotete i vostri cuori e cacciate da essi il tedio
che conduce alla morte […] Se siete ancora legati alla realtà della terra forse
cercate i cibi carnali. Questi alimenti terreni però vengono tramutati per voi
in cibo spirituale. L’agnello speciale è stato infatti immolato per voi nella
cena del Signore per sconfiggere il tedio che può colpire la vostra mente. (Moralia
in Iob Ep)
Per chi, sotto questo
riguardo, è ancora imperfetto l’uccisione e l’offerta dell’agnello nella cena
del Signore costituiscono un salutare rimedio, nonostante le inevitabili
amarezze della penitenza che ci uniscono alla Passione di Cristo:
[…] Si aggiunge anche, a proposito della cena di Pasqua e i pani
azzimi con lattughe agresti. Mangia pane senza fermento chi esercita le buone
opere senza la corruzione della vana gloria, chi attua i precetti della
misericordia senza mescolarvi delle colpe […] Avevano mescolato questo fermento
di peccato con il loro retto agire quelli a cui il Signore diceva […] offrite
un sacrificio di lode con il lievito. Compie questo tipo di sacrificio chi
presenta a Dio un’offerta che proviene da rapina. Le lattughe agresti, molto
amare, devono accompagnarsi alle carni d’agnello. Quando cioè riceviamo il
corpo del Redentore esprimiamo nel pianto il dolore dei nostri peccati,
affinché l’amarezza della nostra penitenza deterga nell’intimo della mente gli
umori della vita perversa. […] E si aggiunge: non mangerete nessuna parte cruda
né cotta in acqua. Vediamo ormai come le stesse parole bibliche ci impediscono
di stare a una interpretazione letterale. Forse che il popolo di Israele […] usava
mangiare l’agnello crudo […]? L’acqua cosa indica se non la scienza umana, come
si comprende da ciò che dice Salomone la acque furtive sono più dolci? E le
carni crude dell’agnello, di che cosa sono simbolo se non dell’umanità di
Cristo presa non in considerazione […]? Ogni nostro intimo pensiero è posto
come cottura nella mente. La carne d’agnello non va mangiata né cruda né cotta
in acqua perché il Nostro Redentore non va ritenuto soltanto uomo Né dobbiamo
cercare di capire con la nostra intelligenza in che modo Dio ha assunto la
natura umana […] Giustamente si aggiunge prendete il capo con i piedi e le
interiora, essendo il nostro redentore l’alfa e l’omega […]. Paolo attesta che capo
di Cristi è Dio. Cibarsi del capo dell’agnello è dunque accogliere con fede la
divinità, mentre mangiarne i piedi significa porsi in cerca delle orme della
sua umanità […]. E le interiora, cosa simboleggiano se non gli occulti e mistici
comandi delle sue parole, che noi divoriamo con avidità le parole di vita? Nel
termine “divorare” che altro dobbiamo vedere se non un rimprovero alla nostra
pigrizia? […].
E ancora:
Prenderanno del sangue d’agnello e ne porranno su l’uno e l’altro
stipite e sull’architrave delle case in cui lo mangeranno. Quella notte
prenderanno in cibo le carni arrostite al fuoco e i pani azzimi con lattughe
agresti […] Tutti questi riti sono per noi fonti di grande edificazione se
vengono esaminati con i criteri dell’esegesi mistica. […] [il sangue
dell’agnello] viene posto su l’uno e l’altro stipite quando è assunto non solo
dalla bocca del corpo ma anche da quella del cuore […] Di che cosa sono simbolo
le case se non delle nostre menti in cui abitiamo mediante il pensiero?
L’architrave della casa è l’intenzione che fa da guida al nostro agire […]. Oppure
le nostre case possono simboleggiare il corpo in cui abbiamo dimora finché
stiamo nell’esistenza […] Le carni vanno arrostite sul fuoco, che le scoglie se
sono state bollite in acqua mentre le solidifica quando le porta a cottura
senz’acqua[..].
Per indicare la ricchezza
dei doni divini custoditi nella Scrittura, Gregorio ricorre alla metafora del
convito, frequente in tutte le letterature per indicare i soccorsi dati alla
mente e allo spirito, per trarne alimento e vita. Scrivendo a Leandro vescovo
di Siviglia, Gregorio si chiede:
E, infatti, che cosa sono le parole della verità se non alimenti
per nutrire le nostre anime?
La metafora del cibo che
dà vita e, dunque, applicata, in primis
alla Scrittura stessa, in cui sono accolte le parole della verità. Compito
dell’esegeta è rendere evidente al lettore, chiamato ad essere commensale al
banchetto da lui imbandito con l’esposizione della pagina biblica, la varietà
dei doni che essa presenta, in modo che
Egli osservando la varietà dei cibi che gli vengono presentati,
può scegliere agevolmente che vuole.
Anche le azioni più
consuete e quotidiane del vivere offrono spunti al pontefice per discorrere
delle realtà dello spirito e dei contenuti della fede della divina rivelazione.
Sempre rimanendo in tema di banchetti, nell’esegesi al versetto di Giobbe in
cui si legge che i suoi figli erano soliti banchettare in casa di uno di loro,
ciascuno nel suo giorno, invitando anche le sorelle per mangiare e bere
insieme. Il cenno al convito offre al pontefice lo spunto per discorrere della
Scrittura, che
È per
noi ora cibo ora bevanda. È cibo nei passi più oscuri, perché quando si spiega,
si spezza e si deglutisce masticandola. È bevanda nei passi più chiari, perché
si beve così come si presenta.
Solo chi ha gustato questo
cibo, poi, sarà in grado di disprezzare tutto ciò che è esterno ed effimero:
[…] è dolce vivere in mezzo alle cose umane, ma solamente per
colui che ancora non ha gustato nulla dei gaudi celesti […] se uno ha gustato
con la bocca del cuore quanto sia grande la dolcezza dei premi celesti […] più
gli diventa dolce ciò che vede interiormente, più si converte in amarezza ciò
che sopporta esteriormente. [….].
(Homiliae in Ezechielem)
E ancora, sulla dolcezza e
sull’amarezza di chi vive conoscendo o rifiutando la parola di Dio,
Gregorio scrive:
[…] bisogna chiederci, dal momento che sopra, riguardo al rotolo
che aveva ricevuto, è scritto fu per la mia bocca dolce come il miele, per
quale motivo poi si dice il mio spirito si riempì di amarezza e di
indignazione? È molto sorprendente che dolcezza e amarezza stiano insieme. Ma
secondo il senso precedente bisogna sapere che se a uno la parola di Dio
comincia ad essere dolce nella bocca del cuore, il suo spirito senza dubbio si
riempie di amarezza contro se stesso [per il peccato]
Frattanto mentre la bocca
si nutre di questo cibo spirituale, tutto l’interno dell’uomo si trasforma e si
arricchisce:
[…] Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo […] Noi
apriamo la bocca, quando con la mente ci disponiamo a comprendere la parola di
Dio. […] i desideri del nostro cuore anelano a respirare gli insegnamenti del
Signore per ricevere l’alimento del cibo della vita. […] tuttavia[..]occorre
che ci nutra Colui che ci ha ordinato di mangiare. E infatti viene nutrito chi
non è in grado di mangiare da sé. E siccome la nostra debolezza non è capace di
ricevere le parole celesti, ci nutre Colui che distribuisce a tempo debito la
razione di cibo; nel senso che mentre
oggi nella parola di Dio comprendiamo
ciò che ieri non sapevamo e domani comprenderemo ciò che oggi non
sappiamo, per disposizione della divina grazia siamo nutriti con il pane
quotidiano.[…] Dio […] tende […] la mano verso la bocca del nostro cuore ogni
volta che ci apre l’intelligenza e pone il cibo dalla sacra parola nei nostri
sensi[…] .
L’uomo piange
i suoi peccati e se ne lamenta, avendo assaporato la parola di Dio e desidera
divenire ricco di delizie e mentre l’anima riceve un cibo destinato a rimanere
in eterno, talvolta è tratta da un insolito sapore di dolcezza, che la compensa
di ogni dolore esteriore, poiché
[…] se assapori la gioia interiore che non finisci mai, subito
diventa lieve tutto ciò che esteriormente procura dolore. (Moralia in Iob)
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